mercoledì 10 marzo 2010

L'approdo del Delta - 5. Guidando controcorrente

Cremona, 15/4/2009
Il rientro questa volta appare più faticoso del solito. Forse perché all’andata ci siamo come lasciati idealmente trasportare dalle acque del Grande Fiume, e tornare indietro significa risalire la corrente come fanno i salmoni, o meglio le anguille (metafora sicuramente più pertinente).
Nella Romea questa mattina non riusciamo nemmeno ad entrare: la coda inizia già all’ingresso di Porto Viro. Facciamo inversione e ripercorriamo la strada fino a Rovigo, tagliando poi verso sud in direzione Ferrara. Vogliamo sfruttare al meglio l’ultima giornata a nostra disposizione.
Chi si occupa di pianificazione territoriale ed urbanistica non stacca mai del tutto dal lavoro, anche in vacanza: se ne sta sempre lì ad osservare il territorio e a studiare le città con la classica deformazione professionale che spinge gli elettricisti a guardare gli impianti quando entrano a casa di qualcuno, i musicisti a
d osservare maniacalmente la strumentazione quando sono ad un concerto, e così via. A Ravenna siamo capitati per caso in una mostra organizzata da Agenda 21 locale all’interno della chiesa di San Domenico; vi erano esposti dei progetti per la riqualificazione della costa in prossimità di Porto Corsini, con studi sulle modalità per rendere più ecocompatibili e meno impattanti le strutture attrezzate per la spiaggia e gli stabilimenti balneari e per salvaguardare i tratti residui di dune costiere. Ne sono uscito con un paio di libri sulla mostra e sulla storia di Porto Corsini.
Ferrara d
a questo punto di vista rappresenta un caso di studio davvero interessante. La storia urbanistica della città emiliana è ben rappresentata in una cartina in Piazza Ariostea, dove molti ferraresi oggi sono venuti a godersi il sole d’aprile. Sono indicati il castrum bizantino, la città antica e soprattutto l’Addizionale Erculea, operazione realizzata in tre fasi differenti con la quale la città ha più che raddoppiato la propria superficie. Camminando per il centro di Ferrara si passa quindi dalla zona più antica, caratterizzata da un pittoresco “disordine” fatto di piccoli porticati e suggestivi vicoli, all’espansione realizzata dall’Addizionale attraverso vie ampie e rettilinee, con una pianificazione urbanistica lungimirante. La gestione intelligente del centro storico di Ferrara sembra proseguire ancora oggi: all’interno delle mura la zona a traffico limitato è piuttosto estesa e la città è considerata una sorta di paradiso dei ciclisti per l’elevato numero di piste ciclabili e per le numerose opportunità legate alla mobilità lenta in generale. Ferrara organizza anche un festival che si chiama “Città e territorio”: purtroppo la seconda edizione inizia proprio domani, così io, eterno ritardatario, stavolta mi trovo ad essere in anticipo.
“Parcheggia pure qui. Sarebbe zona a traffico limitato ma tanto non passano mai”, sento dire a una signora vicino alla Certosa. Ecco, volevo ben dire. Ferrara non può essere la città perfetta. Ma poi, camminando tra i palazzi con le facciate di cotto e gli ampi giardini, colpisce davvero la tranquillità con cui si può passeggiare e la mancanza di quel sottofondo di clacson, motori e imprecazioni cui siamo abituati nelle nostre città. “Certo per chi ha un’attività in centro non è facile”, ci dice la proprietaria di una pasticceria poco distante dal Duomo; riconosce però che il Comune sta cercando di offrire dei servizi alla cittadinanza e di organizzare eventi per mantenere l’attrattività del centro. D’altra parte lei stessa viene da Padova ed ha scelto Ferrara proprio perché la trova una città a misura d’uomo. “Credo che la gente avrà bisogno di tempo per abituarsi”, ci dice consegnando il sorbetto a Sara. Ma se Ferrara vincerà questa sfida, potrà confermarsi come un esempio da seguire.
Passano le ore e mi rendo conto che la giornata non basterà per soddisfare appieno la mia voglia di conoscere questa ci
ttà. Ci siamo fermati solo per un panino al salame di fianco al Castello Estense, eppure non mi sento stanco. Nel pomeriggio assolato mi sembra di respirare l’atmosfera di alcune pagine de “Il giardino dei Finzi Contini”: in certi angoli della città ritrovo le descrizioni del capolavoro con cui Bassani ha dipinto e reso immortale un’epoca e un mondo, quello della borghesia ebrea ferrarese. Credo che quello di oggi sarà per me solo un primo assaggio della città estense.
Si rientra con il Po nostro fedele compagno di viaggio, prima alla nostra destra, poi alla nostra sinistra. Lasciamo la provincia di Ferrara per l’alto Polesine,
poi per quell’angolo dimenticato di Lombardia che è la punta orientale della provincia di Mantova. Vediamo da lontano le torri della centrale di Sermide, percorriamo la tangenziale di Ostiglia, osserviamo alcune caratteristiche abitazioni di Torriana, fino alle cisterne ed alle ciminiere della raffineria di Mantova. Ma questa è di nuovo terra conosciuta.

lunedì 8 marzo 2010

L'approdo del Delta - 4. Ansia di mare

Porto Viro, 14/4/2009
Il Delta è la nostra Camargue, si dice. E abbiamo pure i fenicotteri. Si vedono tra le valli dalla strada per Albarella, isola privata che al viaggiatore appare come un ghetto per ricchi con tanto di campo da golf e dogana all’ingresso con sbarre e gabbiotto di controllo. Purtroppo non abbiamo con noi un binocolo e ci limitiamo a riprendere e fotografare da lontano.
E’ la giornata ideale per riposarsi un po’ in spiaggia; a nord di Albarella ci sono le località turistiche di Rosolina Mare e Sottomarina di Chioggia, mentre a sud bisogna raggiungere la spiaggia di Boccasette, una delle poche zone del Delta che si affaccia sul mare aperto raggiungibile via terra. Optiamo per quest’ultima ipotesi. Riesco anche a prendere coraggio e farmi il primo bagno stagionale. A qualche decina di metri da me un ragazzo mi vede e prova a seguire il mio esempio. Procede per qualche metro da lontano poi mi guarda. Io lo incoraggio e lui si butta. E’ solo l’una e mezza ma sento di avere già dato un significato alla mia giornata.
Il Delta del Po merita di essere visitato in barca, ma a Pila e
Porto Tolle non troviamo la persona che ci è stata indicata per accompagnarci. Ci inoltriamo allora nella zona a sud del Po di Venezia, iniziando il giro dell’Isola della Donzella. Dopo l’abitato di Bonelli si entra nella Sacca degli Scardovari, territorio di pescatori di vongole. Qui il paesaggio è differente rispetto alla zona visitata due giorni fa; ci sono meno valli interne, ma la Sacca è una grande laguna separata dal Mare Adriatico da un isolotto più al largo. La percezione della vicinanza del mare è più forte, ma l’interno conserva un carattere prettamente agricolo. Costeggiamo le casette dei pescatori, che si diradano spostandosi verso il lato di ponente della Sacca. Rarissime le auto; incontriamo qualche camper ed alcune bici. Di tanto in tanto ci fermiamo; nell’aria solo le diverse grida degli uccelli e il brusio lontano di qualche barca a motore. Sembra quasi di essere in qualche isoletta croata, tanto arrivano attutiti i clamori del mondo. Fino a Bonelli si vedevano ancora uomini al lavoro nel porto o a preparare i baracchini sulle poche spiagge in vista della stagione estiva (di cui i giorni di Pasqua devono essere stati una sorta di rodaggio); adesso ci troviamo nel territorio dei pescatori.
Il ponte di barche esercita un fascino strano; da noi sono quasi del tutto spariti. Ne percorriamo uno all’altezza di Santa Giulia per attraversare il Po di Gnocca ed entrare in un paese con un nome dal fascino antico: Gorino Sullam. Da qui proseguiamo verso sud fino alla Bocca del Po di Goro. Qui il contrasto tra i due paesaggi è ancora più evidente. Siamo su un argine sopraelevato rispetto alla strada; per novanta gradi la campagna potrebbe tranquillamente essere quella cremonese, mentre negli altri duecentosettanta si aprono davanti a noi le Bocche del Po di Goro, cinte da un fitto canneto. Dall’altro lato del fiume il faro a segnalare l’immediata vicinanza dell’Adriatico. Solo ora mi spiego appieno la sensazione che provo ogni volta che arrivo al fiume, dopo aver percorso chilometri di strada in golena, in mezzo alla campagna cremonese; quel senso di lieve insoddisfazione, come ci fosse qualcosa di incompleto. Un’ansia di mare, come una promessa nella lenta corrente delle acque del Grande Fiume. La comprendo solo ora che siamo arrivati a destinazione.
Rientriamo attraversando Goro ed il suggestivo Bosco della Mesola. Dopo la doccia decidiamo che siamo stanchi di stare in auto, così ceniamo a Porto Viro. Sara individua un ristorante - pizzeria.
I dipinti alle pareti ed i piatti proposti dal menù sono piuttosto eloquenti; infatti, come abbiamo modo di leggere dalla lista, Nicola e Sandra dopo averci ringraziato per averli scelti ci informano che la cucina della casa è un omaggio alla terra di origine di Sandra. Un ristorante tipico altoatesino nel cuore del Polesine! Sara ordina un piatto di spatzle (ottimi) mentre io, per dare una parvenza di tipicità alla mia cena, preferisco una pizza polesana. Sulle pareti, oltre alla mucca proprio al mio fianco che osserva la nostra cena, riconosco il profilo del Sassolungo, del Sassopiatto e del Vajolet. Chiedo a Nicola – che è venuto di persona a servirci – le origine esatte di Sandra. “E’ altoatesina, dell’Alpe di Siusi”. Gli dico che conosco la zona. Un bel cambiamento, dice lui, dalle montagne a tutta questa pianura. “Beh…si è ambientata, alla fine?” gli chiedo. “Mai”.Penso all’angoscia che da una pianura infinita, per usare le parole di Guccini. Credo di conoscerla, e di sapere cosa significa vivere in provincia. La voglia di fuga ha mille volti. Il desiderio di stordirsi e perdersi in strade affollate e piene di luci nella notte di qualche città. Il rimpianto per un orizzonte non irrimediabilmente piatto ma frastagliato. O l’ansia di mare.

venerdì 5 marzo 2010

L'approdo del Delta - 3. Vecchie capitali e piccole Venezie

Porto Viro, 13/4/2009
Oggi ci aspetta una giornata dedicata alle città d’arte. Ci svegliamo, facciamo colazione, prepariamo le nostre cose ed imbocchiamo la Romea in direzione Ravenna. Passiamo davanti all’Abbazia di Pomposa senza fermarci per non arrivare troppo tardi nella città romagnola ma una volta entrati in tangenziale rimaniamo incolonnati nel flusso di auto dirette verso la Riviera Romagnola: è il Lunedì di Pasquetta. Decidiamo di saltare la visita a Sant’Appollinare in Classe e di puntare subito verso il centro.
Ravenna è una città di cui non si sente parlare così di frequente, in rapporto al suo importante passato. Il capoluogo romagnolo fu infatti per ben tre volte capitale; prima dell’Impero Romano d’Occidente, poi del Regno degli Ostrogoti ed infine dell’Esarcato Bizantino. Ad oggi è un’importante meta turistica; basta sedersi a mangiare una piadina in Piazza del Popolo per rendersene conto. Numerose sono le comitive scolastiche ed è frequente sentire parlare inglese, francese, tedesco. In realtà la città ha nel complesso l’aspetto di un sobrio centro padano, dal quale però affiorano beni monumentali di valore eccezionale; le chiese con i loro caratteristici campanili cilindrici (Sant’Appollinare Nuovo, il Duomo) e gli imperdibili mosaici del Mausoleo di Galla Placidia, della Basilica di San Vitale e del Battistero Neoniano. A proposito di campanili, se ne notano diversi con una leggera pendenza, e pare che ci sia una ragione precisa per tutto ciò: le estrazioni di gas dal sottosuolo, che sono proseguite per anni dando origine ad un abbassamento del terreno nell’ordine di alcuni centimetri. Non bisogna dimenticare che i terreni tutto intorno erano in origine delle paludi.
“Voi siete italiani vero? Si? Secondo voi, con un terremoto come quello ch
e c’è stato in questi giorni in Abruzzo, una struttura come questa avrebbe retto?”…Così ci avvicina un signore sulla cinquantina, a poche decine di metri da San Vitale. Indossa una giacca marrone e sta seduto su una bici interamente riverniciata in blu. “Certo che avrebbe retto”, prosegue, “perché un tempo si costruiva seguendo certi criteri. Ora abbiamo tutti i regolamenti antisismici, ma a L’Aquila molti degli edifici crollati sono stati costruiti dalla fine degli anni ’60 in poi”. Il signore, di cui non abbiamo nemmeno saputo il nome, è stato proprietario per anni di un albergo a Ravenna. Ora lavora in Svizzera. Ha una sorella che vive in un paese del Cremasco e pochi giorni fa, rientrando per le ferie pasquali, si è fermato a salutarla. Una volta ripartito ha deciso di passare da Cremona. Ci parla del Duomo e della chiesa di San Michele, poi riprende a parlare di Ravenna, della Basilica di San Vitale e dei diversi edifici che vi si sono ispirati. Si capisce che ha viaggiato parecchio e che ne sa di architettura. “Quindici - venti anni fa Ravenna era in testa nella classifica delle città italiane per quanto riguarda la qualità della vita” ci dice. Mi viene in mente Via Raul Gardini (protagonista assoluto della scena economica ravennate, morto suicida in un’epoca nemmeno troppo lontana in cui essere coinvolto in un caso di tangenti era considerato un disonore anziché un vanto), nella quale camminavamo giusto un’ora fa. “Ora in Via Cavour è un continuo avvicendarsi di negozi. Aprono, resistono due o tre anni, poi chiudono. Dopo qualche mese riapre qualcun altro”. Ma questa credo non sia solo una storia ravennate.
In ogni città italiana c’è una lapide sotto un balcone da cui si affacciò Garibaldi entusiasmando il popolo (l’ultima l’abbiamo vista in Corso del Popolo, l’arteria principale del centro di Chioggia). A Ravenna nel giro di pochi chilometri si trovano il capanno dove si rifugiò l’eroe dei due mondi inseguito dagli austriaci, la casa dove morì Anita Garibaldi ed il cippo a lei dedicato. Passando davanti al Mausoleo di Teodorico vediamo le indicazioni per il Capanno Garibaldi ed optiamo per una deviazione. E’ l’occasione per costeggiare l’enorme polo industriale che si estende nella zona del Porto, nel quale sono state girate numerose scene del film “Provincia meccanica” con Stefano Accorsi. Lasciati mosaici e chiese alle nostre spalle, tra baracche e reti di pescatori alla nostra sinistra e cisterne e ciminiere alla nostra destra, in un singolare contrasto tra i vari volti di Ravenna (quello storico, quello agreste e quello industriale) arriviamo al mare in località Porto Corsini. Proseguiamo fino a Casal Borsetti e tagliamo all’interno attraversando la suggestiva Pineta di San Vitale ed entrando nella Romea all’altezza delle Valli di Comacchio (sempre per restare in tema cinematografico, sono le zone in cui è stato girato “Agata e la tempesta” di Silvio Soldini).
Riusciamo a percorrere forse un chilometro e siamo già bloccati nel traffico del rientro dai lidi ravennati. Ci si muove di un centinaio di metri ogni dieci minuti. C’è
il tempo per finire di leggere “Vento forte tra Lacedonia e Candela” di Franco Arminio e di invidiare l’autore che se ne va in giro di paese in paese per strade secondarie. Qui siamo stretti tra l’Adriatico e le Valli di Comacchio. Nessuna deviazione di percorso è possibile. Riusciamo ad abbandonare la statale solo all’altezza dei primi lidi ferraresi.
Si fa tappa a Comacchio che – come Chioggia – si fregia del titolo di piccola Venezia. Ed è davvero una cittadina suggestiva; i canali, la singolare costruzione del Trepponti, il lunghissimo Portico dei Cappuccini sono motivi sufficienti per fermarsi a fare una visita. Nel caso ciò non bastasse aggiungiamo pure la coda infinita sulla
Romea. E l’anguilla.L’allevamento delle anguille era l’attività più redditizia per i signori di Comacchio. La signora che ci ospita ci ha raccontato come nelle notti nebbiose fosse facile per i popolani salire sulle barche a remi, raggiungere gli allevamenti e fare razzia, rientrando poi a casa attraverso i numerosi canali che attraversano il centro storico. Per rendere onore a questa bella storia mi sembra d’obbligo un bel piatto di polenta e anguilla ai ferri. Aspettando che si esaurisca il traffico del rientro.

mercoledì 3 marzo 2010

L'approdo del Delta - 2. Finis flumen

Porto Viro, 12/4/2009
Dopo un piatto di spaghetti coi caparosoi in un ristorante al porto di Chioggia ed una bella dormita montiamo in sella. Già, perché ogni meta importante bisogna guadagnarsela: scegliamo quindi di noleggiare due bici e iniziamo a pedalare verso Pila, l’ultimo paesino sulle rive del Po di Venezia, il ramo che taglia in due il Delta sfociando nel punto più ad est. Si procede in un ambiente molto simile a quello che siamo abituati a vedere dalle nostre parti; campi ordinati, argini, saliceti e zone umide lungo le rive del Po. Anche l’odore è quello caratteristico del fiume, se non fosse che avvicinandoci alla foce di tanto in tanto ci giunge un vago sentore di iodio. Nei bar dei paesi incontriamo solo vecchi seduti ai tavolini che sembrano far parte da sempre dell’arredamento e giovani attaccati ai videopoker; due generazioni a confronto nella provincia italiana, due aspetti diversi di una certa desolazione che a tratti si manifesta chiaramente mentre procediamo verso la foce. Sento il fascino a volte un po’ perverso del finis terrae (anche se si tratta più che altro di un finis flumen): quella sensazione di isolamento pur nella consapevolezza di essere sulla terraferma, percorrendo strade che non conducono da nessun’altra parte, strade che prima o poi finiscono nel nulla. Una sensazione che ho provato nel Delta come nel Salento, in certe isole del Mediterraneo, ma anche in alcune cascine della nostra pianura, magari in mezzo a un’ansa del fiume, che per raggiungerle devi farti chilometri di sterrato e una volta arrivato ti sembra di essere ai margini della civiltà.
A Pila il Po si perde in una ser
ie di diramazioni minori divagando tra gli ultimi isolotti ed una serie di paludi e canneti; la percezione del fiume che sbocca nel mare non è chiara. Anche la sensazione di essere in un ambiente completamente naturale viene meno guardando oltre il villaggio dei pescatori, verso l’altra sponda, dove svetta imponente la centrale Enel di Porto Tolle, a testimoniare che il Progresso è arrivato fin lì. Cerchiamo di non pensare all’aria che stiamo respirando e ci fermiamo su un ponte in legno a scrutare verso il faro all’orizzonte.
“Ma perché siete andati a Pila?” ci chi
ede stupito (o forse è meglio dire sgomento) Paolo di Ca’ Cornera, quando gli restituiamo le biciclette. “Certo, è il punto più affascinante del Delta…sulla carta. Però ci sono altri percorsi più suggestivi”. Ci indica due o tre posti che dobbiamo vedere assolutamente. Quando scopre che siamo di Cremona ci parla di Quiresi, il famoso fotografo del Po. L’ha conosciuto in occasione di alcune mostre sul fiume che ha organizzato in passato. Si finisce col parlare di Pirlìin, storico personaggio cremonese immortalato in alcune celebri fotografie di Quiresi, che avrebbe ispirato anche Ugo Tognazzi. Le storie del fiume che arrivano al Delta trascinate dalla corrente.
La giornata ci concede ancora qualche ora di sole; decidiamo perciò di costeggiare un tratto del Po di Maistra, dove il regista Mazzacurati ha girato parte del suo ultimo film “La giusta distanza” (che guarderemo il prima possibile), e ci inoltriamo in una serie di valli interne. Nel Delta del Po quasi tutte le zone sono raggiungibili anche in auto, ma in giro incontriamo soprattutto cicloturisti e camper. I nostri depliant indicano anche alcuni punti dove è possibile fare delle gite a cavallo. Deve essere un ottimo posto per fare del birdwatching; le poche torrette di avvistamento sono però malridotte. Il Parco del Delta è diviso in due parti, una veneta ed una emiliana. “Qui in Veneto siamo ancora poco organizzati”, ci diceva Paolo, “in Emilia è da più tempo che portano avanti il discorso del turismo nel Delta”. Eppure il Delta del Po si estende per la maggior parte proprio in Veneto. Penso che all’estero sappiano valorizzare molto di più il proprio patrimonio naturalistico; in Francia, ad esempio, il turismo fluviale è piuttosto sviluppato, e zone umide come la Camargue (cui il Delta ha poco da invidiare) sono meta di turismo internazionale. Penso però anche a come viene inteso lo sfruttamento turistico qui in Italia, ovvero cementificazione e mercificazione. Cerco perciò di godere se non altro della genuinità del luogo.
Porto Levante, situato in prossimità della foce del Po di Levante, ha già l’aria della località di mare, pur affacciandosi su
un tratto di laguna separato dal mare aperto da una striscia di terreno circa un chilometro più al largo. Case bianche ad un piano, distributore di benzina in prossimità del porto, motorini; non manca il classico ecomostro italico. Qui è finalmente chiara la sensazione dello sfociare in mare del Po.La luce comincia a calare. Stasera abbiamo in programma una tappa ad Adria per un piatto di bigoli al radicchio di Chioggia, formaggio e speck. Risaliamo l’argine lasciandoci alle spalle il Grande Fiume che incurante di noi continua il suo viaggio verso l’ormai prossimo Adriatico.