mercoledì 21 marzo 2012

La mia città in quattro stagioni - Primavera


Ogni volta riesce a sorprenderti. Esci dal lavoro e c’è più luce del solito, un tepore che ti scalda la pelle. Ti sorprendi a toglierti la giacca per strada. Anche quest’anno, è arrivata!
La primavera sono le tante persone a passeggio per Corso Garibaldi, tra Sant’Agata e Palazzo Cittanova. La primavera sono le commesse dei negozi che ti guardano con una punta di invidia da dietro le vetrine, ché per loro non è ancora giunta l’ora di staccare. La primavera sono i motorini posteggiati sotto il fornice in fondo a Via dei Rustici. La primavera sei tu che ti guardi intorno con la stessa meraviglia di una prima volta, poco dopo l’osteria Garibaldi, di fronte al pittoresco ingresso di Via Antico Rodano, o col naso rivolto all’insù, verso la cupola vetrata del Politeama Verdi, glorioso teatro del passato ormai sprofondato in un drammatico abbandono.
In Corso Campi le ragazze in bicicletta coi loro vestiti a fiori scoprono le gambe e pedalano capelli al vento. Viene voglia di seguire lo sciame di tutta questa gente, dove va? Due battute per strada con un vecchio amico che non vedevi da un po’ ti mettono di buonumore, e prosegui per la tua strada vedendo solo le cose belle. Intorno palazzi storici abbandonati e negozi chiusi col cartello vendesi in vetrina, ma la tua mente oggi si rifiuta di soffermarsi su pensieri cupi.
Fai una deviazione verso Piazza Roma per andare a salutare un’amica sul lavoro, ma è impegnata; allora giri verso la graziosa Piazza Filodrammatici, dove sono situati lo storico cinema/teatro Filo e la galleria d’arte il Triangolo; dai un’occhiata ad una mostra, ma poi preferisci startene all’aria aperta. E anche le stradine secondarie, quelle che di solito ami, ti sembrano troppo buie. Così torni in Piazza Roma e ti lasci baciare dal sole.
In Corso Vittorio Emanuele ti coglie un ricordo d’infanzia; tua madre che ti portava alla Standa (ora Oviesse) entrando da un lato ed uscendo dall’altro, per poi percorrere la piccola galleria adiacente e ritornare al punto di partenza, facendoti perdere il senso dell’orientamento. Poco più avanti ecco Via Ala Ponzone, con quella volta un tempo chiamata Stretèen de j àazen, in quanto nei giorni di mercato vi venivano “posteggiati” i ciuchi.

Passi davanti all’imponente ingresso del Teatro Ponchielli, intitolato al grande musicista cremonese. In questa zona la toponomastica (la chiesa di San Pietro a Po, Via Porta Po Vecchia) aiuta a ricostruire il vecchio andamento del Grande Fiume – a ridosso dell’antica cinta muraria ormai quasi interamente scomparsa, se si fa eccezione per i bastioni San Giorgio a Porta Mosa – e la precedente ubicazione della porta sud-occidentale della città.
Proseguendo lungo Corso Vittorio Emanuele invece si arriva diretti alla Porta Po odierna, con al centro la fontana nella quale era usanza bagnarsi in occasione di qualche importante traguardo raggiunto dalla Cremonese o dalla Nazionale di Calcio.
Superata Porta Po, ti è ben chiaro dove vuoi arrivare: al fiume, che non vedi da un bel po’ di tempo ormai. Attraversi Zona Po con i suoi viali ortogonali e raggiungi il cuore pulsante del dopolavoro cremonese; il piazzale della piscina, la pista ciclabile, il bocciodromo, i campi da tennis e da calcio sono tutti piuttosto popolati. Raggiungi Parco Po; ragazzi che portano a spasso i cani, gruppetti di studentesse col libro vanamente aperto sul tavolo, coppiette che si baciano, gente che fa footing o che prende il sole… ed infine eccolo. Il Po.
Certi giorni invernali tendi quasi a dimenticarti della sua presenza, forse perché se ne sta sprofondato in mezzo alla nebbia, forse perché sei tu che preferisci non schiodarti dal tuo tragitto casa-lavoro, ambienti riscaldati, confortevoli ed illuminati intramezzati da un tratto di strada freddo e umido che ti auguri possa essere il più breve possibile. Ma lui è sempre lì, e da sempre accompagna la tua città, anche se il suo rapporto con essa è cambiato. Anzi, è la città che ha cambiato il suo rapporto con il fiume.
Ma nelle giornate di primavera ecco che ritorna al centro dei nostri pensieri, e come te anche tanti altri cremonesi sono venuti qui a godersi il sole. La vicina zona industriale del Porto Canale e di Cavatigozzi – sviluppatasi nel secondo dopoguerra in base ad una scelta urbanistica rivelatasi errata – è nascosta alla vista, così come la Tamoil, raffineria sciaguratamente costruita praticamente addosso alla città e da poco convertita a deposito. Il Terzo Ponte per ora è solo nella mente dei nostri amministratori; il secondo, quello autostradale, è molto più in là, dalla parte opposta della città. Il primo ponte di Po, quello in ferro davanti a te, non è più quello lugubre del finale de L’imbalsamatore ma fa da spalla al sole per questa sua uscita di scena in arancione. Oltre il ponte, dall’altra parte del fiume, ancora terra, a ricordarti la presenza di qualcosa d’altro rispetto alla tua quotidianità.
La primavera è il cielo nelle sue sfumature: azzurro, arancione, indaco, blu notte. La primavera sono le montagne azzurrognole che si stagliano all’orizzonte ricordandoti che anche la pianura, da qualche parte finisce. La primavera sono le tonalità di verde dei filari lungo il Po e la luce e la brezza che ne ravvivano le acque. La primavera è il rosso del cotto cremonese così vivo visto da qui. La primavera è Cremona che dopo il grigiore invernale riprende colore.

martedì 13 marzo 2012

Malagnino - Villette a schiera e cascine


Luglio 2011
 
Tra i comuni della provincia, Malagnino, a causa principalmente della vicinanza del capoluogo, è uno di quelli che ha maggiormente risentito dell’urbanizzazione degli ultimi decenni. Arrivo da Cremona percorrendo la Via Postumia: il fenomeno non si è ancora arrestato. Nuove villette a schiera sono state quasi ultimate, in continuità con le lottizzazioni precedenti. Lo sviluppo del paese è ordinato, non vi sono edifici particolarmente impattanti e nel corso degli anni si sono consolidati alcuni servizi di base che fanno si che Malagnino non sia un semplice dormitorio, anche se la stragrande maggioranza degli abitanti continua a gravitare sulla città di Cremona.
E’ metà mattina, ed è una giornata di sole. Eppure sento un vago senso di insoddisfazione. Cosa c’è che non va?
C’è che non trovo le strade contorte, le case diroccate, le santelle. Non trovo la storia. Il nucleo antico di Malagnino consiste in qualche sparuta cascina. Manca persino la chiesa, e questo, anche in un “laicaccio” come me, causa un inaspettato disorientamento. Provo allora nella frazione di San Giacomo Lovara.
Qui la chiesetta c’è, e ci sono un paio di cascine. Il resto sono villette, e una zona artigianale lungo la Via Giuseppina. Imbocco la provinciale verso l’altra frazione, San Michele, che mi si presenta sulla sinistra poco dopo la grossa bottiglia di acqua minerale Sant’Andrea, una presenza pubblicitaria che mi ha sempre colpito fin dall’infanzia, tanto che nella mia mente la Giuseppina era “la Strada della Bottiglia Gigante”.
Anche a San Michele le testimonianze del passato non sono molte; ricorderei giusto la chiesa parrocchiale. Per ritrovare la storia del territorio di Malagnino occorre inoltrarsi nel paesaggio agricolo e andare per cascine. Lo faccio con una collega che abita da queste parti, fatto che mi consente di intrufolarmi nelle aie e curiosare qua e là.
A Casalmalombra non troviamo nessuno ma riesco a dare un’occhiata da fuori alla chiesetta e alla casa padronale. A Sette Pozzi invece il padrone c’è, e ci mostra un’antica ghiacciaia in mattoni a pianta circolare di fianco al portico della sua abitazione. La corte adiacente è stata recentemente oggetto di un intervento di recupero; gli ultimi appartamenti devono ancora essere venduti, come dice il cartello di fianco al portone.
A Santa Lucia Lama fotografo il bell’affresco sopra il portale, mentre di Visnadello purtoppo non rimane molto. La Malongola colpisce per la forma inusuale della pianta, ma soprattutto per un particolare porticato con archi a sesto acuto. Poco distante si trova Villa Cavalcabò, con il bel giardino cinto da un muro in mattoni che fa da cornice al palazzo padronale; una presenza architettonica di pregio e ben conservata, anche se purtroppo la retrostante Ca’ de Marozzi è in condizioni ben peggiori.
Malagnino è un paese impeccabile; consuma suolo ma con garbo, e persino la discarica riesce ad essere una presenza quasi discreta. Ci si arriva da Ca’ de Marozzi, proseguendo fino al Cassinetto, una piccola corte ormai disabitata ed inglobata nell’area della discarica. Le tapparelle abbassate per sempre mettono una certa tristezza, così come i gabbiani che volteggiano intorno. Questi uccelli sono più malinconici di quelli che volteggiano sul mare d’inverno nel famoso pezzo di Enrico Ruggeri.
Dopo la visita alla discarica ho bisogno di qualcosa che mi riconcili con il territorio e che mi dia un’idea di natura. Ca’ de Alemanni, azienda biologica e fattoria didattica, può essere il luogo che fa al caso mio. Entro con l’intento di comprare qualche formaggio, poi rimango incantato dai bambini di una scolaresca che strillano guardando gli animali. Resto a guardarli per un po’, finché non raggiungo la giusta sintonia con l’ambiente. Poi riparto; i formaggi di Ca’ de Alemanni li vendono anche al negozio dove vado a fare la spesa di solito, e siccome devo stare in giro ancora un po’ e fa piuttosto caldo è meglio non acquistare adesso.
Dalla cascina Ronco Grasselli ero già passato un paio di anni fa, quando i lavori di ristrutturazione erano appena iniziati; vedo che siamo ormai in dirittura finale. L’intervento esternamente sembra stato realizzato con un certo gusto. Il giardino interno è un po’ pretenzioso, ma se non altro la corte interna non è stata smembrata in tante piccole proprietà ed ha mantenuto la funzione di luogo di socialità. Peccato però per i quattro ulivi agli angoli del giardino, decisamente poco padani, che oltretutto dal diametro del tronco non sembrano certo provenire da un vivaio; temo invece che siano stati espiantati da qualche uliveto pugliese.
Passo tra le interessanti cascine Vigolo e Vigoletto e arrivo alla cascina Cervellara, dove trovo i proprietari che mi fanno entrare e mi mostrano l’interno di quello che fu il set di diverse scene del film La febbre, l’omaggio che il regista Francesco d’Alatri ha fatto alla città di Cremona. Qui Fabio Volo trovava rifugio dopo aver mollato tutto. Mi raccontano qualche aneddoto delle riprese. Ci sono anche i cani, gli stessi del film.
Quello realizzato da Fabio Volo ne La febbre è qualcosa di simile a quello che sognano parecchie persone che conosco. Alcuni episodi di recupero abitativo di cascine storiche qui a Malagnino sono già stati effettuati, anche se in maniera differente rispetto a quello che vorrebbero loro. Gli interventi realizzati tendono ad inseguire la tipologia della villetta a schiera; credo sia quasi inevitabile. Il mondo contadino delle cascine cremonesi non esiste più, ma se non altro in questo modo si evita altro consumo di suolo. Ipotesi alternative di recupero, già realizzate da altre parti, sono orientate sulle funzioni sociali. Più difficile al momento il recupero da parte di gruppi di privati cittadini nell’ottica di un ritorno alla vita comunitaria ancora allo stato embrionale nella coscienza collettiva.
Malagnino è questo: ciò a cui tanti cremonesi ambiscono. La villetta a schiera con giardino e l’idea di vivere in campagna. La cascina ristrutturata nel nome di una vita più a contatto con la terra. E la città lì a portata di mano, col Torrazzo ben stagliato all’orizzonte, rassicurante.