L’Aquila,
5/8/2013
Il nucleo storico dell’Aquila ci appare come una
selva di gru in fondo alla strada che attraversa il quartiere dove ci troviamo,
una zona semiperiferica “che però è diventata centro”, come ci racconta Elena.
“Il centro, quello vero, è un posto dove nessuno torna più volentieri”. Lei
L’Aquila se la ricorda, ci era stata nell’estate del 2007, due anni prima del
sisma e quattro anni prima di trasferirsi qui.
Il nostro itinerario parte dalla fontana delle 99
cannelle, uno dei simboli della città, ristrutturata grazie al lavoro del FAI,
mirabile come sempre. Saliamo da qui attraverso il pittoresco Borgo Rivera, e
già le ferite del terremoto appaiono in tutta la loro crudezza. Attraversiamo
via XX Settembre e ci troviamo nel centro della città fantasma. Su questa
strada si affaccia la Casa dello Studente, parzialmente crollata in occasione
del sisma, simbolo di una città universitaria messa in ginocchio. La sensazione
più immediata mi riporta indietro nel tempo: ho provato qualcosa di simile
solamente dieci anni fa, nella Sarajevo post-bellica. Ma se ai tempi la
capitale bosniaca stava riprendendo a vivere, nel capoluogo abruzzese tutto
sembra fermo… o quasi. “La maggior parte dei cantieri sono stati aperti da
poche settimane”, ci dicono quando facciamo notare che gli operai, oltre a
qualche turista, sono le uniche presenze del centro storico.
Non è un caso che Antonella Tarpino dedichi ampio
spazio all’Aquila nel libro Spaesati,
inserendola nel suo tour dei luoghi abbandonati d’Italia (al pari, tra l’altro,
delle cascine cremonesi). Dopo
quattro anni in giro si trovano ancora cumuli di macerie ed ampie porzioni del
centro storico sono rimaste “zona rossa”, con tanto di posti di blocco dei
militari. Un contrasto paradossale con le “new town” attraversate ieri, prive
di centri di aggregazione, nelle quali gli abitanti si aggiravano come smarriti.
Tutto nel centro dell’Aquila ci appare surreale. I
due operai Enel al lavoro vicino alla chiesa di Santa Maria Paganica con Fischia il vento come sottofondo. Le
pareti piastrellate di quelli che furono bagni e cucine, che mostrano
sfacciatamente l’intimità domestica di un tempo attraverso i muri crollati. La
musica a tutto volume dei pochi locali che hanno riaperto, a cercare di
soffocare il rumore dei martelli pneumatici. Le vetrine dei tanti esercizi
commerciali, chiuse forse per sempre. La scritta del calendario nella bacheca
della chiesa di fronte al teatro San Filippo, fermo alla data del 6 Aprile
2009: “Non abbattetevi, l’Eterno è con voi”. Lo scroscio della fontanella di
Porta Bazzano, unico rumore paradossalmente quasi allegro, in mezzo
all’abbandono totale: da qui alla scalinata della basilica di San Bernardino
non incontriamo anima viva.
Tra i vicoli deserti si intuisce l’antica
ricchezza artistica della città, ma le chiese principali, a partire dal Duomo,
non sono visitabili. Riusciamo invece ad entrare nella Basilica di Collemaggio.
L’abside è parzialmente crollato, ma guardando la singolare facciata dal prato
antistante si direbbe che non sia successo niente. Nel parco di fianco alla basilica
c’è pieno di ragazzini: allo stesso modo, intorno al Forte Spagnolo abbiamo
incontrato numerose mamme con bambini ed anziani a passeggio. Si legge in
queste nuove abitudini degli aquilani quella voglia di riappropriarsi della
propria città, del suo cuore pulsante che è stato loro precluso.
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