Bruxelles (Belgio), 5.4.2019
Dal treno che collega l’aeroporto con la Stazione di Brussels Nord mi godo i primi esempi di architettura e paesaggio del Belgio. Per una volta sono io in viaggio per l’Europa per motivi di lavoro mentre Sara se ne sta a casa a godersi gli ultimi giorni di maternità. La conferenza finale del progetto sull’economia circolare che mi ha visto impegnato nell’ultimo anno e mezzo è giovedì, ma si parte il mercoledì per tornare il venerdì. Niente corse: chi ci capiterà di nuovo a Bruxelles? Anche se l’entusiasmo è stemperato dall’inquietudine: la mia carta di credito pare non funzionare. In città trovo conferma della cosa: cammino per il centro alla ricerca di una soluzione, mentre inizia a scendere la pioggia. Nonostante le circostanze avverse la Grande Place è stupefacente e, come si dice, vale da sola il prezzo del biglietto. Le facciate dei palazzi riescono a scintillare anche sotto il cielo bigio.
Mi rilasso (in parte: mi attende una giornata a conversare fitto in inglese!) verso sera, una volta risolti i miei problemi economici. Passeggiando per gli ampi viali della città, con l’ampio percorso pedonale e le file alberate a separare le due corsie, capito dalle parti di Santa Caterina. Alla ricerca delle tipicità gastronomiche belghe mi imbatto nelle meatballs (palle di carne, accompagnate da varie salse e, ovviamente, cavoletti di Bruxelles), oltre che nelle birre belghe. Cerco qualche marca introvabile in Italia e mi faccio trovare impreparato. Bisogna smaltire: andiamo perciò a vedere uno dei simboli della città, Mannekin Pis (l’Enfant qui pisse). Il bambino che orina allegramente all’angolo di due vie è più piccolo di quanto immaginavo, come sempre accade in questi casi. Mi perdo svariate volte, e non credo che c’entri la birra. Meglio rientrare, non prima di essermi procurato un po’ del celeberrimo cioccolato belga. Domani la conferenza inizia presto e guadagno la mia stanza incurante dell’incedere delle signorine che stazionano sotto la mia porta: meno sfacciate delle colleghe italiche, forse per via della temperatura, la loro presenza nei dintorni della metro di Yser è tuttavia piuttosto eloquente.
Colazione “intercontinentale” all’hotel all’angolo, convenzionato col mio e gestito da giapponesi: si passa dal pain au chocolat al miso, dal cappuccino al pane e formaggio. Ma ho altri pensieri: devo raggiungere Green Biz, uno dei tanti spazi in prossimità dei Docks che sono stati recuperati negli ultimi anni. Ci troviamo nella semi-periferia nord-orientale della città e qui il recupero delle aree dismesse si sta realizzando in maniera più assennata rispetto al centro, dove tra palazzi tipicamente belgi a tetti spioventi e chiese gotiche emergono prepotenti grattacieli moderni. L’architettura della capitale del Belgio è fatta anche di contrasti. C’è la zona dei “palazzi di vetro” sedi delle istituzioni europee, ci sono i quartieri universitari, c’è l’area dello stadio Re Baldovino (ex Heysel) e dell’Atomium, altro simbolo della città, che ho visto di sfuggita ieri dal treno.
L’incontro con i colleghi provenienti da vari paesi d’Europa è interessante, e tra break coffee e pranzi vari non mancano anche gli aspetti gastronomici. Una volta terminata la conferenza, però, definitivamente rilassato, la curiosità culinaria si riaffaccia. Passeggio tra la Place Royal e la zona del Sablon, due animate piazze ai piedi dell’omonima chiesa tipicamente gotica. Scopro altri imponenti palazzi, come il Palazzo di Giustizia o il Museo delle Belle Arti, simbolo di un Belgio che ha avuto un passato importante (va detto, anche sulle spalle della colonia del “Congo Belga”).
In una brasserie ordino infine vol-au vent: molto di più della semplice tartina cui siamo abituati, qui si tratta di un piatto unico farcito, anzi ricoperto di besciamella, pollo e funghi ed accompagnato con patatine fritte. Intorno a me, emblematici di questo quartiere, una tavolata di studenti ed una di colleghi di lavoro in qualche istituzione europea.
E poi via verso l’aeroporto. Una Stella Artois, un pane scuro belga farcito, ma è già non luogo, è già casa che chiama.