venerdì 7 maggio 2010

Genova per noi due - 1. Con quella faccia un po' così

Genova, 4/4/2010
Con quella faccia un po’ così, saliamo alla stazione di Piacenza sul treno delle 8:17 per Genova. Con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così, che abbiamo noi che saremmo stati volentieri a letto per un’altra oretta. Ma abbiamo deciso di sfruttare al meglio la prima delle tre giornate dedicate alla “Superba”. Di prendere l’auto non se ne parla nemmeno: mi hanno sempre terrorizzato gli “svincoli micidiali” cantati da De Gregori in “Viaggi e miraggi”.
Oggi vengo a Genova per colmare una lacuna. Ho visto bene o male tutta la Riviera di Ponente da Savona in giù, e tutta quella di Levante da Deiva in poi. Durante la mia infanzia sono stato molte volte nella casa di Monterosso di mia “zia” Sandra, e negli ul
timi anni ho ripreso i contatti con quella zona. Ho trascorso una vacanza di fine anno a Santa Margherita Ligure, un po’ di tempo fa. Eppure non sono mai stato a Genova, l’unica delle grandi città del nord Italia che ancora mi manca, a nemmeno tre ore di strada da casa nostra.
Il treno scollina e si butta a capofitto sul capoluogo ligure, riversando nella stazione di Porta Principe gli immigrati e le coppiette in gita in questa strana mattina di Pasqua. Genova, città di contrasti: più volte ne ho sentito parlare in questo modo. In Via Balbi scatto la prima foto: una bandiera del Genova Pride sventola da una finestra poco sopra la “Casa della Bibbia”.
Appuntamento davanti al Palazzo della Meridiana con Riccardo, che ci
accompagna in Via della Maddalena, dove pernotteremo in un edificio che da fuori sembra fatiscente, ma dentro si rivela un antico palazzo signorile. Una delle sorprese di Genova. Sistemiamo le nostre cose e lasciamo lui e la moglie a discutere su quale sia il programma migliore per la nostra giornata. Per non far torto a nessuno decideremo da noi.
Negli stretti e omb
rosi vicoli che da Via della Maddalena tagliano verso Via San Luca stanno parecchie ragazze sudamericane (una delle etnie più presenti) in atteggiamento eloquente, mentre nell’aria si diffondono le note di “Volta la carta”. Fabrizio De André sarà una presenza costante in questi giorni, e la prima impressione è che la città da lui cantata dalla fine degli anni ’60 in poi non sia cambiata di molto.
Arrivati al Porto Vecchio rimaniamo sconvolti dal serpentone umano in attesa di poter entrare all’Acquario. Deviamo nella zona della Cattedrale di San Lorenzo e della chiesa di San Matteo, per poi mangiarci un’ottima focaccia di Recco in Piazza De Ferrari. Nella cornice degli spettacolari palazzi che si affacciano sulla piazza e col sottofondo scrosciante della celebre fontana, chiamiamo Laura, amica cremonese di origini genovesi. E’ stata lei a dirmi “devi andare a Genova. A te piacerà”. Pensiamo che forse è qui anche lei, ma ci risponde da Sanremo. E’ in bici e sta pedalando verso Levante. La vedremo forse arrivare al terzo giorno, sudata e stravolta?
Andiamo a Palazzo Ducale, anche se siamo in anticipo di un paio di settimane sulla mostra dedicata alla storia delle nazioni di cui ci ha parlato La
ura. In compenso c’è un’esposizione di artisti contemporanei sul tema “Isole non trovate”. Nei saloni al piano di sotto invece c’è una mostra fotografica sulle donne operaie del ‘900. Dalle locandine che vediamo in giro, la città sembra essere piuttosto vivace dal punto di vista culturale.
Ritorniamo a perderci nei carruggi finché la pioggia, che il cielo nuvoloso minacciava da stamattina, non comincia a cadere. Ci rifugiamo allora nei tre palazzi-museo della monumentale Via Garibaldi: Palazzo Tursi (sede del Municipio), Palazzo Bianco e Palazzo Rosso. E proprio all’ultimo piano di Palazzo Rosso si trova una piccola chicca: l’appartamento dell’ex-curatrice del museo, un’insegnante di liceo morta qualche decennio fa. Per un’appassionata d’arte deve essere un sogno vivere qui dentro; come se non bastasse, il panorama è suggestivo. Dalle vetrate appare chiaramente la verticalità di Genova, una caratteristica cui i liguri sono stati costretti dalla mancanza di spazio. Case di almeno sei o sette piani si affacciano su vicoli strettissimi, che da quassù non si riescono nemmeno a vedere. Ma emergono anche le tante sfaccettature della città, negli aggettivi che da questa altezza mi vengono in mente per definirne i palazzi: signorili, fatiscenti, imponenti e, più verso la periferia, moderni, avveneristici. I tetti poi sono un aggrovigliato ammasso di mansarde, abbaini, minuscoli casotti, terrazze ben tenute, lamiere sbilenche, piante, antenne, comignoli.
Troppa cultura ci ha affaticato: una volta rientrati nella nostra stanza, riusciamo a malapena a raccogliere le forze giusto per un piatto di testaroli al pesto genovese nella trattoria “sotto casa”, poi a letto. Non avevo mai dormito sotto un soffitto affrescato.

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