lunedì 10 maggio 2010

Genova per noi due - 2. La Città Vecchia e oltre

Genova, 5/4/2010
Colazione a tema pasquale con fette di colomba e “La buona novella” in sottofondo. Mi ero ripromesso di non abusare di riferimenti a De André, ma camminando per le strade di Genova lo incontriamo in continuazione, nella musica che si diffonde nell’aria, nelle scritte sui muri, nelle fotografie alle pareti e sui libri appoggiati a ripiani e tavoli di bar e osterie. E la Città Vecchia, che in questi giorni stiamo girando in lungo e in largo, per molti versi è davvero quella dell’omonima canzone. Aveva ragione Laura: Genova è senz’altro il mio tipo di città, centro di mare ma arrampicato al tempo stesso sulle montagne retrostanti, con i vicoli intricati che scendono verso i moli. Forse non è un caso che “Città Vecchia” sia anche il titolo di una delle più belle poesie di Umberto Saba. Nel suo caso ovviamente si tratta della Cità Vecia di Trieste, cui sono particolarmente legato. Credo che la canzone di De André debba qualcosa anche a Saba.
In Piazza Verdi domandiamo quale autobus dobb
iamo prendere per andare a Boccadasse. Ne nasce una discussione tra le signore che attendono alla fermata, che prodighe di consigli si contraddicono a vicenda. Abbiamo notato che è una costante genovese; lo stesso ci è accaduto ieri con i nostri padroni di casa. Un altro luogo comune sui genovesi viene invece smentito pochi minuti più tardi, quando una delle signore ci regala il biglietto dell’autobus, alla faccia della proverbiale tirchieria.
Arriviamo fino a Sturla e ci godiamo il panorama in una gior
nata finalmente luminosa. A Levante lo sguardo arriva fino al Promontorio di Portofino, a Ponente il Mar Ligure è invece incorniciato dalle cime ancora innevate degli Appennini. Sembra davvero tutto perfetto, forse perché siamo un po’ in controluce e non vediamo i segni della deturpazione del territorio di cui la Liguria è stata vittima negli ultimi decenni, sia a Levante (dove il fenomeno ha addirittura portato a coniare il neologismo “rapallizzazione”), sia a Ponente (e il grande scrittore e appassionato di urbanistica Italo Calvino, sanremese di origine, ha pure scritto un libro intitolato “La speculazione edilizia”).
La giornata è caratterizzata da un vento fresco e a nessuno salta in testa di tuffarsi in acqua. Il costume rimane nello zaino, ed il primo bagno stagionale un sogno destinato ad essere rimandato di un mesetto, più o meno.

Percorriamo la passeggiata a ritroso ritornando a Boccadasse, pittoresco borgo marinaro dove hanno vissuto anche Gino Paoli e Ornella Vanoni, oltre alla famosa gatta (quella con una macchia nera sul muso, in una soffitta vicino al mare).
Tra A
lbaro e la Foce altri esempi di verticalità. Il nostro sguardo percorre un edificio in tutta la sua altezza: al piano terra si vendono serramenti e parquet, dal primo al terzo piano ci sono appartamenti, ai piani superiori c’è una chiesa moderna con l’ingresso su una strada che scorre a una quindicina di metri sopra le nostre teste. Poche centinaia di metri più avanti parte la Sopraelevata, una sorta di lungomare a una dozzina di metri d’altezza che si sono inventati per passare da un capo all’altro del centro storico.
Nella zona intorno a Piazza della Vittoria tutta la desolazione di un quartiere residenziale nel lunedì di Pasquetta: vialoni a tre corsie deserti, bar e uffici chiusi, parchi popolati solo da qualche sparuta presenza, palazzoni addormentati. Gli abitanti sono tutti altrove.
La passeggiata è lunga e siamo un po’ stanchi, ma è il modo migliore per cogli
ere i vari aspetti di Genova. In Via XX Settembre rimaniamo incantati dai grandiosi palazzi che si susseguono uno dopo l’altro, prima di rituffarci nella Cità Vegia. E sono di nuovo vicoli bui, persiane socchiuse e panni stesi ad asciugare, quei panni che sono diventati il simbolo dell’ultima forma di ribellione creativa e irriverente di cui questo paese è stato capace. Mi riferisco all’episodio citato da Francesco Guccini in “Piazza Alimonda”; Berlusconi, prima del summit del G8 del 2001 (una ferita ancora aperta per la città) chiese ai genovesi di non stendere le mutande sulla strada ad asciugare in quanto irriguardoso nei confronti dei suoi illustri ospiti. Naturalmente la maggior parte dei genovesi “disobbedì”.
Altre istantanee dalla Città Vecchia. A Santa Maria Assunta
veniamo catturati da una “guida” che ci delizia coi suoi toni ironici e vagamente dissacranti. Dietro San Donato assistiamo a una partita di calcio multietnica tra ragazzini con panorama sulla città. A Campo Pisano scopriamo un angolo tranquillo e delizioso. In Vico della Lepre ci mangiamo una pasta al sugo di noci e un piatto di pesce spada alla ligure.
“Non ne posso più” ci dice scuotendo la testa la moglie del gestore. Ce l’ha con i marocchini seduti nell’altra stanza; riesco a percepire il loro tono che mi sembra vagamente indisponente, ma non distinguo i loro discorsi. Le chiedo se teme che facciano scappare i turisti. “N
on tanto i turisti, quanto i genovesi, quelli che qua ci stanno tutto l’anno. Abbiamo già chiesto alle ragazze che battono di spostarsi almeno di qualche metro. Se no non entra più nessuno”. Le dico che ho sempre sentito raccontare cose simili di Genova, ma che nonostante certe situazioni siano lampanti, qui ho avuto meno l’impressione di trovarmi in un ghetto rispetto ad altri quartieri di altre città, quasi la commistione di tutte queste differenti tipologie umane sia una cosa connaturata con questi vicoli. Le domando se è cambiato molto negli ultimi anni. “I marocchini stanno aprendo pizzerie e kebab, ma non sono questi che mi preoccupano, perché almeno lavorano. Il problema è che basta che quattro come quelli ti prendano di mira ed hai chiuso”. Usciamo. Poco più avanti un ragazzo sulla trentina parla con un prete di strada. “Io sono nato cristiano. Ora devi dirmi tu, padre, perché sbaglio tutto nella vita”. Saranno i vicoli stretti, saranno i palazzi così alti, ma davvero per molti qui “il sole del buon Dio” continua a non dare i suoi raggi.

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